|
download pdf
Il religiosismo come
opportunismo politico
Aspetti e
contraddizioni nell’uso politico della religione. Una visione di sinistra,
forse!
di Francesco Pezzullo
Carolina
del Nord, in un luogo non ben precisato: il pastore è immerso fino alla vita
nello stagno. Una nutrita folla, proveniente dalle vicinanze ma non solo, è
assiepata sui versanti delle colline circostanti. Una decina di persone sulla
riva, in abito da festa, viene fatta entrare nell’acqua. Fa molto freddo. Tra
essi si trova un giovane ambizioso dalle idee molto chiare circa il proprio
futuro. Una volta avvicinatosi al predicatore il giovane è completamente
immerso sott’acqua. Riemerso, tremante, guadagna di nuovo la riva, dove i
presenti gli si raccolgono intorno per felicitarsi. Ora è di diritto un membro
della comunità battista. A descrivere la scena è il sociologo tedesco Max
Weber, al tempo, in visita a dei parenti in America. Chi lo accompagna, alla
vista del giovane immerso nell’acqua, gli palesa di non esserne affatto stupito.
Weber, chiedendone il motivo, viene a sapere di come la cosa fosse scontata dal
momento che il neo battezzato aveva intenzione di aprire una banca in quel
paese. In qualità di membro della comunità battista si era guadagnato un
attestato di qualificazione etica tale da garantirgli un credito di onorabilità
e fiducia illimitato presso tutto il circondario. All’interessato sarebbero
stati assicurati, senza possibilità di concorrenza, i depositi di tutti i
residenti della zona e non soltanto degli appartenenti alla setta battista[1].
Duomo di Napoli: la
folla dei fedeli in assemblea è quella delle occasioni importanti. Il miracolo
della liquefazione del sangue di San Gennaro si è ripetuto. In fila con gli
altri un giovane avanza con fare raccolto verso l’altare. Arriva il suo turno,
il cardinale porge in avanti l’ampolla, lui si allunga e la bacia. Il rito
devozionale è compiuto, tutti hanno visto, i fedeli, ma soprattutto fotografi e
giornalisti che possono così amplificare la notizia: il giovane che ha reso
l’omaggio devozionale è stato nominato, solo pochi giorni addietro, capo
politico del movimento di cui fa parte con la pretesa ambizione di divenire
futuro primo ministro di un governo della Repubblica stellato. L’aspirante candidato, devoto al santo partenopeo, ha
mostrato di essere persona timorata di Dio. Tutti i buoni credenti che,
affaccendati nelle cose terrene, sono anche elettori adesso possono tenerne
conto. Il gesto appena consumato può senz’altro valere come fiduciosa
credenziale per chi a tempo debito dovrà esprimersi nell’urna.
I
casi ricordati costituiscono un esempio di come in politica come negli affari
la pubblica professione di fede religiosa può comportare talora dei vantaggi,
in attesa di quelli probabili nell’aldilà, nell’immediato certamente terreni.
Parigi vale sempre una messa verrebbe da dire.
Rimanendo al campo
della politica, il comportamento del nostro aspirante capo del governo conferma
in un certo senso come la religione, a scapito delle più sincere professioni di
laicità dello Stato, si mantiene ancora efficace instrumentum regni. L’alleanza tra trono e altare, sebbene in forme
e modi diversi, risulta più che mai valida.
Non
che cercare consenso elettorale facendo leva anche sul sentimento religioso sia
da biasimare. Pure se al nostro non sono mancate le accuse di speculazione
interessata di quel sentimento. Alcune di esse però presentavano più il sapore
di una piccata invidia verso una mossa propagandistica azzeccata, che poteva
essere fatta propria dall’invidioso avversario, solo a pensarci prima. Verrebbe
da dire niente di nuovo sotto la volta celeste. Altri politici in passato si
sono mostrati assai volenterosi nel dare sfoggio delle più diverse forme di
sussiego devozionale, inclusa quella del bacio dell’ampolla miracolosa. A
scorrere la storia della nostra Repubblica, senza andare troppo lontano nel
tempo, è un continuo rincorrere il consenso dell’elettorato religioso e ciò a
partire dalla fu Democrazia Cristiana fino ai suoi eredi che oggi non navigano
più soltanto lungo la sponda destra del fiume politico, ma sovente e, non senza
un certo margine di perplessità, lungo quella sinistra.
Contrariamente
però al caso ricordato da Max Weber
circa il nesso tra determinati principi etico-religiosi e un’assoluta
garanzia di rigore e onestà nella condotta degli affari, non può dirsi, alla
prova dei fatti, lo stesso nel mondo della politica. La confusione alligna, in
casi non peregrini la malafede impera. La contraddizione rimane la bussola che
traccia il percorso. È così possibile osservare partiti e movimenti politici, i
cui esponenti, intransigenti campioni della fede, sono pronti alla crociata in
difesa dei suoi valori quando si tratta di fare il presepe a Natale o quando
qualcuno minaccia di togliere il crocifisso dalle aule nelle scuole pubbliche
della laica Repubblica, ma che al tempo stesso si fanno notare per storie e
comportamenti che rappresentano la negazione dei più elementari principi e
valori di quella tradizione religiosa. La solidarietà verso l’ultimo, il più
debole, l’emarginato, la condotta personale improntata ai dettami di onestà,
tolleranza, fratellanza sembrano non avere nulla a che vedere con ciò che il
bambino nella mangiatoia o l’uomo sulla croce vogliono simboleggiare. D’altro canto,
comportamenti in un certo senso incoerenti non mancano anche tra quei partiti e
movimenti che si fanno interpreti e guardiani di valori laici e progressisti. A
titolo esemplificativo se da un lato considerano inammissibili, in una società
multiculturale e multi confessionale, i crocifissi o l’ora di religione nella
scuola pubblica, dall’altro lato sono pronti ad indignarsi quando in nome della
stessa laicità si vorrebbero proibire nei luoghi pubblici determinati segni o
indumenti tesi ad ostentare l’appartenenza confessionale. Si invoca il rispetto
del principio dell’uguaglianza e della libertà religiosa, anche se poi quel che
si vuole difendere è espressione di una cultura liberticida sessista e
intollerante.
Nel
marasma non stupisce che il politico devoto di San Gennaro sia altrettanto
favorevole a leggi laicissime su biotestamento o unioni civili. Il dubbio
partorito è chi nei fatti mente all’elettore: l’oscurantista, il primo o il
progressista, il secondo? Il sentimento religioso come machiavellico
grimaldello per storcere quindi consenso, questo è lo scenario che ne emerge.
Il
discorso fluidamente si allarga e si rovescia. Chi è incoerente verso chi:
l’elettore che non vuole il crocifisso nelle scuole, ma poi vota la candidata
che ostenta il velo islamico, il credente che non manca mai alla funzione
religiosa, ma che poi considera coerente votare quanti propagandano la
soluzione di affondare i barconi dei migranti con tutto il carico umano poco
dopo essere salpati. E si potrebbe continuare.
Chi
mente a chi, forse nessuno mente o tutti mentono. Atteggiamento oramai
ampiamente giustificato da quella sorta di relativismo pragmatico e disincantato
conseguenza della caduta delle ideologie del Novecento.
Già Marx, nel
condannare l’eclettismo nell’enunciazione dei principi, auspicava di fare
accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici, ma per nulla si facesse
commercio dei primi. Nondimeno tra le ideologie decadute sembra mantenere una
certa presa quella religiosa. La religione formidabile tentativo di irrazionale spiegazione razionale di ciò
che fin dalla notte dei tempi assilla l’uomo: comprendere il mistero della
vita, capire il perché del suo svolgimento e, soprattutto, rassicurare che, in
qualche modo, quella vita non è a termine in senso assoluto. Dare un senso alla
vita è dunque il suo scopo primario. Mi
sono proposto di investigare e di riflettere, per mezzo della sapienza, su
tutto ciò che avviene sotto cielo. Questa è un’occupazione gravosa che Dio ha
dato agli uomini, perché in essa si tormentino
[2] ci informa l’ecclesiaste. E ancora lui riferisce dopo aver osservato tutte le
cose che sono o si fanno sotto il sole come esse non siano altro che vanità e occupazione senza senso[3].
La religione forma di conoscenza. E da sempre la conoscenza è strumento di
potere. Di qui l’uso politico della religione o, di contro, l’uso religioso
della politica.
Queste
osservazioni conducono a riprendere la critica marxiana della religione. A
fondamento di tale critica si pone l’assunto per cui è l’uomo a fare la
religione. L’uomo nel mondo, la società in cui vive, lo Stato che lo governa
producono quella e non viceversa. Essa si pone come coscienza capovolta del mondo: è la sua forma teorica, la sua sanzione morale, la sua ragione
che consola e giustifica. Per tale motivo può divenire pericoloso strumento
nelle mani di chi riesce a farsene interprete. Il depositario in terra di
questo aroma spirituale ha il
famigerato potere di narcotizzare il popolo, la società. Ecco il potere di
oppressione e di manipolazione. Per lungo tempo la storia è stata risolta in
superstizione, dice Marx. La critica del cielo diviene allora critica della terra, la critica della
religione critica del diritto, la critica della teologia critica della politica.
In tal modo si pone in evidenza l’insufficienza di un sistema di governo che si
regge, mantenendo e incoraggiando un sistema sociale inadeguato a fronteggiare la sorda pressione che tutte le sfere
sociali fanno reciprocamente pesare le une sulle altre, l’apolitico disaccordo
generale, la grettezza presuntuosa e ignorante. In una società frazionata all’infinito e con finalità antitetiche chi governa a
facile gioco nell’usare la religione per conservare l’uomo in uno stato di
asservimento culturale, sociale, economico[4].
Nondimeno
non è sufficiente combattere l’uso politico della religione. Occorre spingersi
oltre. L’emancipazione politica della religione, sostiene Marx, si ha quando lo
Stato non professa alcuna religione. Ma il limite di questa sta nel fatto che a
liberarsi dal vincolo è lo Stato, non ancora l’uomo. Politicamente la
liberazione si mostra astratta e parziale.
Anche se lo Stato si professa laico, il cittadino che aderisce ad una
confessione è pur sempre religiosamente condizionato.
Lo
Stato politico non sopprime di fatto le differenze che esistono tra i cittadini
e che sono legate alla proprietà, all’educazione, al lavoro, alle idee, bensì
le presuppone e se ne fa mediatore. Lo Stato politico ha di fronte la società
civile. L’uomo da un lato è membro di una comunità politica, dove agisce e si
afferma in senso pubblico, come aggregazione di singoli a formare un solo
individuo, dall’altro lato, egli è membro della comunità civile, dove si
presenta come singolo isolato, privato. L’emancipazione politica della
religione trasferisce quest’ultima dalla sfera del diritto pubblico a quella
del diritto privato. La religione non informa più lo spirito dello Stato, ma
quello della società civile: l’hegeliana società dell’egoismo, della separazione
dell’uomo dalla sua comunità. Ne segue che lo Stato politico emancipato, in
quanto mediatore di interessi diversi e contrastanti, se non discriminatori
della società civile, non previene un altro tipo di pericolo: l’uso religioso
della politica. In questo senso fallisce il suo vero obiettivo che è
l’emancipazione dell’uomo in quanto tale, l’uomo appartenente al genere umano e
non quello scisso in interessi particolari. Qui si rivela l’ipocrisia dello Stato. I diritti
dell’uomo che esso tutela sono in realtà i diritti del borghese, cioè dell’uomo egoista, non del cittadino, dell’uomo
separato dall’altro uomo, non della comunità. Fondamento della società civile è
la libertà individuale. Nello Stato politico emancipato significa che l’uomo
non si libera della religione, della proprietà, dell’egoismo professionale,
bensì che riceve la libertà religiosa, la libertà di possedere, la libertà
professionale. L’uomo trova nell’altro non la realizzazione della propria libertà, ma un limite ad essa. L’uguaglianza e la sicurezza garantite dallo Stato
alla libertà individuale consiste in ciò per cui ogni uomo è considerato
ugualmente una monade chiusa in sé stessa. Allo Stato compete solo assicurare a
ciascuno la conservazione dei propri diritti e interessi
[5]. La
vita politica diventa solo il mezzo tramite cui garantire la vita della società
dell’egoismo.
Un
altro teorico comunista, Lenin tacciava di economismo quanti, nel corso dell’emancipazione dell’uomo dalle forme di sfruttamento, cui
era vincolato nella società capitalistica, ritenevano valido e sufficiente
ricorrere esclusivamente alla lotta economica di tipo sindacale, rinunciando
esplicitamente alle forme di lotta politica. Il teorico russo, al contrario,
rifiutava questa impostazione, in quanto si rendeva possibile rimediare ai mali
prodotti dal sistema economico vigente, favorendo migliori condizioni di vita e
di lavoro, ma, tuttavia, si mantenevano intatte le condizioni che alimentavano
quei mali. Si consentiva di curare il paziente, dopo aver contratto la malattia,
ma si lasciava questa libera di continuare a mietere vittime. Dietro
l’economismo si celava per Lenin una forma di opportunismo politico che
favoriva la classe al potere, avendo questa campo libero nel rafforzare il
predominio delle proprie idee e dei propri uomini sulla società
[6].
L’idea di libertà che si affermava era quella che definiva la società
dell’egoismo.
Sulla scia di Lenin
si potrebbe, quindi, indicare con il termine di religiosismo quella forma di opportunismo politico che, in barba alla
laicità dello Stato, subordina quest’ultimo agli interessi dei gruppi che si
sostengono su principi confessionali. L’ideologia religiosa come quella
liberista mantiene il predominio sociale, laddove risulta più diffusa e meglio
organizzata.
Sotto
la bandiera della libertà economica, ricorda ancora Lenin, si sono condotte le guerre più brigantesche, sotto quella
della libertà di lavoro sono stati
costantemente derubati i lavoratori[7].
Si potrebbe aggiungere in nome della libertà religiosa si continuano a negare
diritti civili, si continua ad alimentare la paura per l’altro. Il ruolo di chi
vuole farsi guida, del partito deve risiedere nell’educazione alla discussione
politica delle masse. Solo una efficace preparazione a tal fine le avrebbe
messe in condizione di comprendere le
formule e i sofismi con i quali ogni strato sociale maschera i propri appetiti egoistici. Essenziale diventa
comprendere quali interessi, quali leggi e istituzioni rappresentano quegli
appetiti. I compiti politici e organizzativi di un partito assumono un
significato valido solo se riescono ad elevare la massa dei cittadini ad essere
agenti consapevoli dell’attività politica. La ricerca di un facile consenso porta,
invece, a svilire quei compiti sul piano degli interessi immediati, legati al
concreto contingente[8].
Considerando
ancora valida la riflessione del filosofo bolscevico, è solo interpretando il
proprio ruolo in questo senso che i partiti e i loro esponenti sarebbero avanguardia nella creazione di una
società aperta, inclusiva e progredita nel campo dei diritti civili e della
giustizia sociale. Laddove nel solleticare le più basse pulsioni folcroriche o
populiste di quella massa, nel fomentare
paure e divisioni i rappresentanti della politica si palesano solo come
indolente retroguardia.
Lo
Stato emancipato politicamente si comporta politicamente
verso la religione e religiosamente verso la politica, riprendendo il Marx
della Questione ebraica. La laicità
dello Stato è apparente, così come lo spirito religioso è apparente. Lo Stato
democratico perfetto, invece, deve astrarre completamente dalla religione,
realizzandone concretamente i principi umanitari che ne costituiscono il
substrato dottrinario. Paradossalmente in esso la coscienza religiosa, prosegue
il filosofo, assume tanto più valore quanto più è senza significato politico, senza
fini terreni, faccenda di un animo schivo del mondo[9].
Marx considera
insufficiente sul piano dell’emancipazione politica della religione anche il
principio della interiorità della fede: il sentimento religioso come fatto di
coscienza puramente interiore al singolo individuo di luterana ispirazione. Un
simile atteggiamento continuerebbe a non eliminare la condizione servile
dell’uomo
[10]. Esso
non fa altro che sostituire alla devozione,
la convinzione quale fondamento della
servitù.
Eppure
si potrebbe considerare proprio il recupero del principio agostiniano della
interiorità della fede per tentare di concepire lo Stato democratico perfetto,
astratto dalla fede, teorizzato da Marx. È infatti Sant’Agostino ad insegnare
che Dio si rivela nella più recondita interiorità dell’animo. Pertanto solo
ripiegandosi su sé stessi si raggiunge il divino
[11].
Il vescovo di Ippona ricorda come Dio non vuole la preghiera, a lui rivolta, manifestata
esteriormente. Quella va espressa nella profondità della propria mente e ciò
perché il segno esteriore è segno della propria volontà, non di quella divina.
Attraverso esso è come se si volesse forzare Dio a concederci ciò che desideriamo. Dio non si conosce e, pertanto,
non si rivela con i sensi, ma solo con l’ausilio dell’intelletto, continua
Sant’Agostino. La conoscenza e, quindi, la rivelazione tramite i sensi è
precaria. Se questo qualcosa muta per qualsiasi motivo il suo corso regolare, ciò
che prima si era presunto finisce con il rivelarsi falso.
Falsa
è ogni cosa che vuole apparire ciò che non è. Di fronte all’immagine di un uomo
nello specchio è possibile affermare tanto che l’immagine è falsa quanto che
l’uomo che si specchia sia vero. Ciò che è vero da un punto di vista si
manifesta il contrario da un altro punto. Nessuna cosa terrena, dice il
filosofo cristiano, può sottrarsi a questa logica. La verità, essenza da cui
derivano le cose vere, e che rimane sempre tale, consiste invece in ciò che non
è falso da nessun punto di vista. Ne segue che occorre distinguere ciò che si
conosce da ciò che si crede. Si può affermare che ciò che conosciamo sia anche
ciò che crediamo, ma non tutto ciò che crediamo possiamo dire che lo conosciamo
anche. La conoscenza implica un consenso condiviso, oggettivo, laddove la
credenza rimane una certezza soggettiva, una convinzione personale. Ora la
conoscenza di sé, del proprio animo conduce alla conoscenza anche dell’altro
animo e per questa via alla vera conoscenza dell’essenza divina. Ponendosi
davanti a questa l’uomo è condotto a ridimensionare il valore di ciò che
risulta esteriore all’animo umano[12].
Assumendo
la prospettiva agostiniana sarebbe plausibile applicarle il metodo della
teologia negativa: si conosce Dio per ciò che non è, non per ciò che è. Si può
escludere, ad esempio, che Dio sia un cavallo o un tavolo, ma non è possibile
includere nulla, alla portata dei sensi, che lo definisca affermativamente.
Trasportando il concetto dal piano ontologico a quello sociale viene lecito
dire che Dio non è un presepe, per cui ognuno può decidere di farlo o meno
senza che qualcuno si senta minacciato nelle proprie convinzioni. Diventa
lecito affermare che Dio non è certamente un particolare indumento da indossare
o il peculiare cibo che si mangia, per cui tutti possono sentirsi liberi di
indossare o mangiare ciò che è di gradimento senza peccare. A ragione viene da
dire che Dio non è terrorismo, per cui nessuno creda di arrogarsi il diritto di
uccidere nel suo nome. Ancora, è possibile dire che Dio non parla attraverso
gli uomini, ma all’io degli uomini, per cui nessuno presuma di farsene
interprete privilegiato. Così proseguendo, sarebbe possibile una traccia verso
quella emancipazione reale dell’essere umano, verso quella realizzazione concreta dei principi della
religione universale, astraendo dalla stessa, auspicate da Marx.
Alle
parole di Hegel la conclusione: In questo
giudizio […] è soppressa ogni
unilateralità e peculiarità dell’essere per sé. […]. Siate per voi stessi ciò che tutti voi siete per voi stessi: siate
razionali[13].
[1]
M.
Weber, Le sette protestanti e lo spirito
del capitalismo, in M. Weber, Sociologia
della Religione (a cura di P. Rossi), Milano, 1982.
[2]
Qohelet, 1, 13, in La Bibbia, Trento, 2010.
[4]
K. Marx, Introduzione alla Critica della filosofia
del diritto di Hegel, in A. Ruge, K. Marx, Annali franco-tedeschi (a cura di G. M. Bravo), Grotte di Castro
VT, 2001, pp. 117-118.
[5]
K. Marx, La questione ebraica, in A. Ruge, K.
Marx, op. cit., Grotte di Castro VT,
2001.
[6]
Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro
movimento, Napoli, 2003.
[9]
K. Marx, La questione ebraica, cit.
[10]
K.
Marx, Introduzione alla Critica della
filosofia del diritto di Hegel, cit.
[11]
Agostino, Soliloqui, in Tutti i dialoghi (a cura di G.
Catapano), Milano, 2008.
[12]
Agostino, Il maestro, in op. cit., Milano, 2008.
[13]
G. W.
F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito,
(a cura di V. Cicero), Milano, 2013, p. 723.
|